LA SCUOLA E’ A DISAGIO

Ai colleghi di tutta Italia,
chiedo di fare insieme una riflessione che parta da un fatto a mio avviso molto grave: la scuola è a disagio.

La scuola è a disagio nella società di oggi perché non le viene più riconosciuta la funzione costruttrice che porta in sé o, se riconosciuta, non le viene più richiesta. E’ a disagio in questo fare e in questo dire sommario e veloce, pieno di slogan anglofoni e privo di sostanza, che vediamo applicato in qualunque canale informativo, dal mezzo di comunicazione di massa alla stesura delle Leggi. La cultura della Scuola che insegna a costruire il dialogo, ad ascoltare le opinioni altrui quindi a elaborare e a disfare pensieri, é a disagio perché la realtà invece, sembra volerci allontanare da questo modo di costruire la società.
La cultura in genere è a disagio perché non ha un prezzo economico ma ha valore.
Anche se, tutto quello che in pratica la cultura e la scuola aiutano ad elaborare, sembra però fuori moda o meglio fuori tempo.
Voglio condividere il disagio che si prova a ricoprire un ruolo, nel mio caso di insegnante, che non è riconosciuto socialmente né economicamente e voglio condividere il disagio che sento ad insegnare saperi e stuzzicare intelligenze per poi vedere gli stessi giovani promettenti entusiasti a lezione che, dopo qualche anno, devono andare via dal nostro Paese.
E se la televisione, per forza di cose, si adatta al poco o al nulla, il docente no. Davanti a quel nulla che troveranno i giovani dopo la scuola e l’Università, il docente è a disagio. E’ a disagio perché insegna ai giovani a credere, gli fornisce gli strumenti per costruire e lo invita a sperare. Ma lo studente, finiti gli studi e spesso, consapevolmente mentre studia, è già a disagio anche lui perché sa che non potrà sfruttare la propria cultura (la propria formazione), è a disagio appena laureato perché deve emigrare all’ estero per potere fare carriera accademica o, semplicemente, per trovare un lavoro adatto al proprio titolo di studio. E sono tanti i titoli di giornale e le notizie che ci testimoniano queste migrazioni.
Il disagio più grande però lo provo vedendo tutti coloro che hanno permesso che si arrivasse a ciò, spudoratamente a proprio agio, che si pavoneggiano e condannano con le loro scelte e riforme, impuniti, vite e carriere altrui.
A disagio dovrebbe essere chi per trenta anni ha governato e non ha mai proposto una riforma per la Scuola e ancora di più chi poi, dopo il 2000, in pochi anni, di riforme ne ha fatte tre, che si sono reciprocamente annullate e che poco hanno avuto dell’impianto vero delle Riforme(l’impianto che è capace di dare nuova forma, che è capace di modificare, di cambiare, migliorando radicalmente l’assetto attuale di un’Istituzione).

“Perché la Scuola e l’Università sono a disagio in una Italia che di loro ha bisogno, ma che in loro non si riconosce?”

Per fare questa riflessione insieme è necessario chiarire innanzi tutto il fatto che per me la cultura è anche Scuola e che scuola e cultura insieme sono nervi di un unico corpo che è la società (inoltre ci tengo a sottolineare che lì dove utilizzerò il temine Scuola, lo faccio immaginando di poterlo sostituire con Università). Adesso io non credo che la Scuola possa sostenere a pieno i ritmi e la velocità della Società, ma di certo non può restare ai margini di quella stessa società che forma, altrimenti diventerebbe, come sta rischiando di essere, un corpo estraneo da espellere e che crea impaccio e fastidio. Le Agenzie formative devono potere e sapere utilizzare strumenti ed espressioni che la Società conosce e riconosce e per fare questo hanno bisogno però di finanziamenti, di credibilità e di vere riforme strutturali. Solo così il mondo dell’Istruzione (Scuola, Università, Ricerca) potrà interagire con il mondo reale e aiutare la Società nelle dinamiche di interpretazione e trasformazione dei contenuti e quindi potrà essere di supporto per il cammino verso il Futuro. Una volta che la Scuola e l’Università avranno strumenti efficaci per incidere sulla società, potranno stare al passo con i tempi e potranno riappropriarsi del loro ruolo di guida. Potranno guidare e non essere guidati dalla Politica, come è giusto che sia. Perché è il mondo culturale che fornisce le letture degli avvenimenti e delle evoluzioni alla politica e non il contrario.
Cosa significa?
Significa che il Governo e la Società, devono dialogare con le Agenzie formative, non scendendo a patti con la mediocrità e l’informazione sommaria ma attuando un riconoscimento reciproco e non univoco di ruoli. La Scuola e l’Università portano in sé spessore e formazione e non devono subire scacchi né scavalchi. Questo non significa che non siano bisognevoli di riforme e rimaneggiamenti. Lo sono e come ma a patto che esse siano complici e artefici di tali cambiamenti.
La Scuola, nello specifico, non vi è dubbio che abbia bisogno di una vera rivoluzione per potere superare carenze e fragilità che si porta dietro da lungo tempo: i nostri programmi non sono più digeribili, il nostro sistema classe è superato e bisogna ripensare al tutto nell’insieme ma non si può pretendere di cambiare il mondo scuola, facendo cadere dall’alto una riforma sommaria, decontestualizzata rispetto all’assetto organizzativo attuale e poi … poi sognare che tutto cambi!

Io sono un’insegnate della scuola pubblica italiana e sono a disagio,  non per i miei limiti e gli errori che sono certa di fare e che, con il vostro confronto e aiuto, potrò correggere, ma sono a disagio dinnanzi ad uno Stato che non riconosce l’importanza del mio ruolo e sono a disagio dinnanzi ad una Società che viaggia ad una velocità diversa da quella scolastica nella quale io opero e sono a disagio dinnanzi ad un Governo che definisce una propria riforma sulla scuola “Buona” quando per i motivi che spiegherò non lo è!

Fermi per trant’anni!
La Scuola italiana è rimasta indietro nel tempo troppo a lungo per pretendere che adesso senza strumenti faccia un salto avanti.
Per spiegarmi faccio qualche esempio pratico e torno in dietro di qualche decennio, prima della Buona Scuola, a quando la Scuola era Cattiva.
La Scuola italiana dal 1923 al 2000 è rimasta identica a se stessa mentre il mondo e la società percorrevano strade nuove e dinamiche, cambiavano linguaggi e strumenti e, quella che, ironicamente, definiamo la Cattiva Scuola, arrancava in totale solitudine con governi distratti e si spingeva avanti, grazie alla buona volontà di Presidi e di docenti, e purtroppo, ma inevitabilmente, restava indietro.

Il primo tentativo di Riforma sulla Scuola italiana dal 1923, ovvero dalla Riforma Gentile, definita da Mussolini la più “fascista” tra le Riforme, avvenne solo nel 1996 (non considero la timida Legge del 31 dicembre del 1962 , n. 1859, che semplicemente aboliva la scuola di avviamento e istituiva la cosiddetta scuola media unificata). Il Governo italiano cominciò a lavorare a qualcosa che assomigliasse ad una vera Riforma che tutti aspettavano da trent’anni con la Legge 10 febbraio 2000, n. 30.

Ma come capita spesso in Italia, la Riforma Berlinguer del 2000 venne prontamente abrogata dalla cosiddetta riforma Moratti (Legge 28 marzo 2003, n. 53) del Governo seguente, che a sua volta fu abrogata dalla riforma Gelmini.

La parola “riforma” non è esattamente corretta parlando delle Leggi che riguardano l’Istruzione dal 2000 in poi ma la utilizzo perché oramai queste Leggi vengono comunemente intese come Riforme.

Per riepilogare: un vuoto trentennale è stato poi colmato, per quanto riguarda l’Istruzione, essenzialmente da questi cambiamenti:

  • La riforma dell’esame di maturità
  • L’introduzione dei crediti formativi
  • L’ incremento delle ore di inglese
  • La riduzione di ore delle materie: “storia e geografia”.
  • L’introduzione di un unico voto in “Scienze naturali” invece che tre voti distinti in biologia, scienze della terra e chimica.
  • Il taglio delle ore di insegnamento negli Istituti tecnici e professionali, per quanto riguarda gli insegnamenti cosiddetti “di indirizzo” degli Istituti tecnici.

E poco altro… provvedimenti parziali e, a volte, nocivi, più che Riforme!

I Governi hanno pensato che stavano cambiando la Scuola, la società ha pensato che la Scuola stesse cambiando ma la Scuola si è trovata con dei cambiamenti che non realizzavano alcun vero progresso nell’impianto culturale della scuola. Tagli e aggiunte da fare andare bene ad un sistema ingessato, ecco cosa sono state e sono queste riforme.
Con la penultima riforma, quella Gelmini, vi sono stati accorpamenti di materie che hanno creato vuoti e si è, piano piano, arrivati ad una modifica, questa sì al passo con i tempi, ma puramente linguistica più che di contenuti, a parere mio, di una tristezza infinita. Gli alunni hanno cominciano a fare parte di quel mondo che fa i conti con la terminologia economica: piano formativo (invece che progetto educativo), debiti e crediti. Così i nostri studenti sono diventati, nel giro di pochi anni, utenti.

E siamo ai giorni nostri. Nella legge 107 addirittura il termine educazione nel testo di Legge scompare quasi del tutto (che non si pretenda più che la Scuola educhi?). Oramai il termine è sostituito con il più rassicurante formare, cioè dare una forma, vale a dire plasmare.

Ma ciò che ci mette più a disagio è l’assenza, in questa riforma, di un’idea di scuola (per dirla con Massimo Baldacci). Per esempio, nella definizione di Buona Scuola, cosa si intende? Mi aspettavo di leggere e capire quale lineamento avesse una Buona scuola. Perché con questa riforma la Scuola diventa buona? In cosa? Cosa decidiamo di definire come buono?

Sicuramente non è buono che l’economia abbia, quasi del tutto, influenzato la riforma stessa (e non solo questa). Questo è il vero limite.
Nella Legge 13 Luglio 2015, n107 la frase più ricorrente nel testo è  “nei limiti delle risorse finanziarie disponibili (…) e comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica” e, giusto per curiosità la parola, invece, meno frequente, che compare addirittura solo una volta nell’intero documento, è democrazia.

Oramai è evidente, come ogni cosa oggi più che un valore abbia un prezzo. Anche il nostro futuro. E non è retorica.

L’ansia economicistica sta piegando alle proprie esigenze i sistemi scolastici di molti paesi. L’Italia è uno di questi. Ma quanto e come l’Italia investe nell’Istruzione? Sicuramente anche se spende non investe.

La politica del nostro paese ha fatto poco per sostenere l’istruzione: l’Italia è il solo paese che registra una diminuzione della spesa pubblica per le istituzioni scolastiche tra il 2000 e il 2011, ed è il paese con la riduzione più evidente 5 % del volume degli investimenti pubblici” (dati riferiti al rapporto Ocse).

E non è un caso che all’Università, in Italia, vadano i più ricchi (ancora più che negli Stati Uniti) e non necessariamente i più meritevoli. Le borse di studio non bastano, le tasse aumentano e le risorse scarseggiano. I ricercatori e i docenti (almeno quelli delle scuole superiori) sono costretti a pagarsi l’aggiornamento e in una vita liquida (per dirla come Bauman), nella quale il riconcepimento professionale è all’ordine del giorno, anche la formazione costante dei docenti dovrebbe essere compresa nella spesa dell’Istituzione.

E un servizio più efficace dovrebbe corrispondere ad un aumento di ore di lavoro riconosciuto però da un aumento di stipendio. Piuttosto che da bonus annui, premi e Nobel vari. Saremmo tutti più a nostro agio se il Governo investisse nel capitale umano dell’Istruzione, seriamente.

Riteniamo che, permettere ai docenti e agli studenti di vivere il mondo della cultura e della ricerca con una dignità professionale che venga riconosciuta anche dalla possibilità di esoneri (per studenti rispetto alle tasse troppo alte) e stipendi adeguati (davvero troppo bassi) per gli insegnanti, possa avvicinare la società scolastica e universitaria ancor di più al concetto di democrazia. Dove sarebbe meglio, invece che stimolare competizioni all’interno della scuola per ottenere progetti, bonus e magari qualche premio nazionale, si lavorasse per costruire una scuola della condivisone e non della competizione visto che la scuola è un mondo che deve dare l’esempio di persone che collaborano e crescono insieme, che comunicano tra loro.
Da John Dewey ad Antonio Gramsci si era intrapreso un cammino ispirato all’idea di una scuola democratica. Una buona scuola deve essere strutturata come un contesto democratico, dove tali valori si respirano quotidianamente. La democrazia non si insegna, si imita e si respira. Il Preside manager è a disagio in una scuola democratica. Non condivido che la collegialità, vero perno della democrazia scolastica, venga vista come un fattore di immobilismo e di blocco decisionale.

Ma oggi la scuola sembra seguire il modello del capitale umano invece che quello dello sviluppo umano, come suggerisce il professore Massimo Baldacci. Oggi la scuola è subordinata all’economia, al mondo della produzione, dobbiamo preparare produttori capaci ed efficienti. Uno Stock di conoscenze e competenze. Modello azienda.
Gli uomini sono il fine, l’economia il mezzo e non il contrario!
Compito della scuola è lo sviluppo umano, ovvero la capacità di ogni persona di diventare un soggetto autonomo e di progettare la propria vita. Serve poco disporre di diritti se non si hanno le capacità di saperli utilizzare. Ripeto che la parola democrazia è presente nel testo della Legge 107 una sola volta e questa mancanza mi mette a disagio.

Democrazia non è solo sapere e sapere fare è soprattutto sapere pensare. Anche Il pensiero critico ha scarsa fortuna nel documento. E, di fronte ad una riforma che non sostiene la necessità del sapere pensare e del costruire un pensiero critico, la scuola è a disagio.

Si è trascurato è il binomio scuola-cittadinanza mentre più fortuna nel testo ha il binomio scuola e impresa. La preoccupazione di un Paese democratico però dovrebbe essere quella di formare le nuove generazioni in modo coerente con i valori della democrazia facendo diventare i propri alunni cittadini consapevoli e attivi. La Scuola dovrebbe formare uomini, non produttori e consumatori anche perché poi i nostri studenti, nella realtà si troveranno probabilmente pronti a produrre senza avere un lavoro e pronti a consumare senza averne la possibilità. Bisogna almeno che abbiano gli strumenti per rielaborare questi che la Società definirà fallimenti.

A scuola di futuro per dirla con Daniel Goleman e Peter Senge, per noi insegnati significa ridisegnare i curricula, il tempo scuola e l’organizzazione classe. Invece di tagliare e accorpare materie o di gettare dentro ad un’organizzazione ingessata nuovi prof del potenziamento, bisognerebbe lasciare che la selezione fosse naturale e dipendente dalle esigenze sociali. Un curriculum flessibile per ciascun alunno sarebbe l’ideale, nel quale ciascuno possa scegliere una parte del proprio piano di studi, come accade nel mondo anglosassone, senza trascurare gli insegnamenti fondamentali per la costruzione del sapere pensare.

La funzione della scuola non è, come qualcuno ha scritto quella di selezionare dei giovani ai fini di un collocamento nella vita professionale. La Scuola è molto di più e va ripensata insieme. Un‘idea di scuola deve basarsi su un’idea coesa, ricavata da un’analisi del contesto storico. Questa operazione non può essere parto di una mente singola o di un gruppo ristretto. La scuola va sganciata da compiti direttamente professionalizzanti e seppure è obsoleta quindi da rifare, bisognerebbe ripensarla in modo plurimo, però. La rapidità e l’imprevedibilità del mutamento tecnologico sono destinate a causare un ritardo sistematico nella scuola.

I governi italiani degli ultimi anni si sono dati un gran da fare per effettuare un cambio di rotta nel mondo dell’Istruzione al quale io, per i motivi che ho spiegato, rispetto al ruolo che ricopro, credo in sincerità di dovermi opporre, quanto meno di manifestare il mio disappunto.

Ammetto che, dire che la rotta presa dalle nostre Agenzie formative fino a poco tempo fa fosse quella giusta, magari sarebbe un azzardo, di certo avremmo dovuto cambiare i mezzi con i quali stavamo dirigendoci verso il futuro, ma la rotta presa adesso, non ritengo sia quella che ci permetterà di trasportare più in là, rispetto il nostro tempo, quei valori conquistati e maturati con grande fatica dalla nostra storia, come la democrazia. Anzi, a volte mi sembra di avere, rispetto questo nobile compito, cambiato rotta.

Non credo che gli intellettuali possano stare zitti davanti a tale sconforto.

La democrazia è un bene al quale non intendo rinunciare, neanche se questo significa essere messa alla gogna mediatica o non essere scelta da un Dirigente scolastico. Sarò pure contraddetta in questa mia riflessione: bene! Avrò applicato due principi fondamentali: la libertà di parola’ e la possibilità di contraddittorio, così avrò goduto dell’applicazione stessa della democrazia.

E, visto che il tasso di occupazione dei laureati italiani a tre anni dalla fine degli studi, è del 52,9 per cento, quello dei tedeschi del 93 e la media europea del 80 %, significa che in Italia studiare si potrebbe dire che non convenga?
Certo che no, studiare serve per essere cittadini e magari accorgersi che alcune Leggi sono da rifare.

 

 

 

Precisazioni.

Per il mio articolo faccio riferimenti impliciti ai lavori di Daniel Goleman- Peter Senge, A scuola di futuro. Manifesto per una nuova educazione (Rizzoli), di John Dewey (a cura di Maurizio Lichtue) ,Educare per la democrazia, di Steven Brint, Scuola e società, John Dewey Scuola e società ( del 1899), Cipollone, P. Sestio, Il capitale umano, Il Mulino, Bologna, 2009, di Sen, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Mondadori, Milano 2001 ed infine di  Massimo Baldacci, Beniamino Brocca, Franco Frabboni, Arduino Slatin, La buona Scuola, sguardi critici dal documento alla Legge, FrancoAngeli.

 

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